Frankenstein (2002)

Frankenstein (2002)

Regia e Drammaturgia Cora Herrendorf
Scene e Costumi Remi Boinot e Cora Herrendorf
Musiche Alfonso Santimone e Cora Herrendorf
Disegno Luci Horacio Czertok
Maschere Atelier Ca’ Macana
Attrici/Attori Teatro Nucleo
Una produzione Teatro Nucleo – Teatro Comunale di Ferrara 2002

“…molto è stato fatto,
ma molto, molto di più farò io.
Ripercorrendo strade già battute
mi farò pioniere di una nuova via.
Esplorerò forze sconosciute
e svelerò al mondo i misteri
insondabili della creazione…”

Uno spettacolo ispirato al famoso romanzo di Mary Shelley che, rifuggendo da ogni suggestione romantica, offre una visione grottesca e delirante della drammatica storia del Dottore e della sua creatura.
Povero Dottor Frankenstein, così dotato di talento, circondato da scienziati ambiziosi che, sussurrando lusinghe al suo orecchio come Mefistofele fece con Faust, seminano in lui il germe, onnipotente e criminale, del desiderio di Potere.
Uno spettacolo demenziale, animalesco e al contempo rigoroso dove, nel vortice di una sarabanda politicamente scorretta, si fondono il teatrodanza, il grand-guignol, le visioni di Artaud, la peste televisiva, il carnevale.
Povero Dottor Frankenstein, così ridicolo, persino la memoria dell’Uomo comune lo confonde con la sua creatura e quando si dice “Frankenstein” ci si riferisce al Mostro a cui ha dato vita. Così che, come in un paradossale e simbolico gioco di prestigio l’umanità confonde il Creatore con il Creato.
Uno spettacolo che genera dal caos, quel caos che è Storia di oggi e che, rincorrendo disperatamente un filo drammaturgico corretto e plausibile, nel caos non può che finire.
Povero Dottor Frankenstein al quale, come ad un clown allucinato, pericoloso e pasticcione, scappa tutto di mano e la sua creatura perfetta si rivela criminale, potente, terribile, indomabile e, come ha appreso dal suo Maestro, pretende di più, sempre di più, ha sete di sangue e vendetta.
Uno spettacolo che è anche riflessione sul teatro, sull’amore per l’arte; che agisce come un gioco di specchi, fra le disperate rincorse degli affari della politica e degli intellettuali che la rappresentano e le premonizioni di Camus e di Artaud che ci impongono una scelta: quella definitiva della Peste, frutto della nostra mostruosità onnipotente e discriminatoria o quella della Diversità, come patrimonio di libertà e creazione individuale e collettiva.




L’EREDITA’ DEL DOTTOR FRANKENSTEIN
di Cristina Gualandi

Il Dottor Frankenstein non ha tempo da perdere. Guarda eccitato il suo orologio da polso e si aggiusta la cravatta a pallini con uno schiocco di nervi, ha il volto solcato da un tremito sinistro, nei suoi occhi lampeggia un bagliore altrettanto sinistro. Sappiamo che non dorme da più giorni e più notti: è un uomo molto ambizioso e con un sommo obiettivo. Certo di uomini ambiziosi il mondo è sempre stato pieno, ma a lui è capitato in dote anche il genio e, ambizione e genio, possono dar luogo ad una miscela altamente incandescente, talvolta bruciante…
Quale sia quel suo obiettivo sembra chiaro, almeno a lui possibile: svelare al mondo i misteri della creazione dando alla luce, dal chiuso del suo laboratorio scientifico, una nuova specie vivente. Insomma il dottor Frankenstein vuole generare… e vuol fare tutto da solo. La sua fretta allora è comprensibile:chi non sarebbe immensamente elettrizzato se si trovasse in questa circostanza, ovvero sul punto di varcare, in vita, la soglia dell’Olimpo per sedersi nel suo punto più alto?
Quando ci apre le porte del laboratorio le sue creature sono là, già pronte; ce le fa intravvedere ancora incartate, come le verdure imballate e prezzate del supermercato, a gestazione conclusa dritte in piedi in belle pose plastiche. Manca loro soltanto il suo contatto, l’ultimo spasmo del creatore, quindi l’espulsione nel mondo.
Scocca davanti ai nostri occhi la tanto agognata ‘ora x’ per il dottore, tolto il sacchetto la vita si accende improvvisa in quei corpi e ci sorprende: non un cedimento né un’esitazione, sono beneducati e benvestiti, camminano veloci, forse un po’ meccanicamente ma… hanno fretta, anche loro, in questo assomigliano a chi li ha creati, non hanno tempo da perdere.


A prima vista è difficile chiamarli mostri, come al contrario era facile chiamare mostro il parto del dottor Frankenstein di Mary Shelley. Non hanno gli occhi gialli né punti di sutura, non sono giganteschi né sproporzionati. La scienza del resto, nei due secoli che ci separano dalla prima apparizione di questo dottore, ha fatto passi da gigante… appunto. Queste nuove creature sono quasi belle, se non fosse per i movimenti forse un po’ troppo automatici.
Sono usciti sorridenti dal loro imballo, hanno varcato una soglia. Ma di che mistero ci parlano, a quale ombra prestano il corpo? In più il dottor Frankenstein ha oggi voluto un’intera platea di testimoni. Sarebbe legittimo domandargli il perché.

Erano poco più che manichini protetti con il cellophane dalla polvere e un attimo dopo sono vivi e pimpanti intorno a noi, come se il burattino di legno che sta seduto da anni sul comò della nostra camera da letto, e che avevamo costruito per nostro figlio, prendesse tutto d’un tratto a camminare spedito, ci guardasse dritto negli occhi e ci dicesse con naturalezza un bel “ciao!”.

Fin qui ancora tutto a posto, penseremmo di essere precipitati nel fiabesco ad occhi aperti. Ma se l”ex burattino’ ci camminasse intorno un po’ nevrotico e guardasse continuamente l’orologio e fosse vestito da bancario e gridasse “Telecom! Telecom!”? Sarebbe, semplicemente, spaventoso. creature del dottore con tutta quell’ansia in corpo; mostruosa è la smorfia che con i loro aridi movimenti disegnano nell’aria, e che rende quell’aria più irrespirabile di prima; inquietante è la vibrazione di quei corpi, la loro uniformità, il tempo brusco al quale corrispondono che procede per accelerazioni e improvvisi stop, un tempo contabile, tempo che pretende, continuamente scandito da qualche cosa di esterno, come il secco battere di mani del ‘creatore’ ora ‘conduttore’ o quel suo terrificante, parossistico gridare “di più, voglio di più!”. Ecco, il fatto è che quello che ci racconta il Teatro Nucleo non ha l’aria di essere una fiaba, per quanto anche una fiaba possa tingersi di inquietudine e di orrore.
Il dottore-creatore è sceso dalla torre d’avorio, è uscito dall’isolamento della ricerca, ha perduto l’aura romantica dello scienziato pazzo ma pur sempre scienziato, si è mescolato e sporcato, è diventato complesso, metamorfico e si è moltiplicato, come la sua creatura.
Se il mostro di Mary Shelley aveva tutta l’aria di essere un parto psichico per dare corpo ad un’ombra poco più che individuale, ora il mostro è ‘finanziario’ e ‘mediatico’, ovvero ha la forma di un parto sociale e dà corpo così ad un’ombra collettiva.


Da molto tempo il Teatro Nucleo non affondava così profondamente le mani nel presente. Sempre il teatro è uno specchio per chi guarda anche quando l’immagine che riflette è metaforica o protetta dalla distanza della storia, in questo caso ci è tremendamente vicina, se non fosse per l’esasperazione sarcastica, in certi momenti esilarante.
Il personaggio, le parole e alcuni episodi raccontati da Mary Shelley, come la morte della sposa per mano del mostro o il faccia a faccia tra il dottore e il mostro, si impigliano nel reticolo della nostra realtà vissuta, ad alcuni suoi aspetti ‘mostruosi’: l’omologazione, la manipolazione, la perdita di consapevolezza.

A tutto questo, entro un ritmo molto serrato, anche altri registri propri della poetica del Teatro Nucleo danno spessore narrativo come il grottesco delle due parate funebri, o il simbolico dell’apparizione del dottore nelle sembianze di uccello nero o di clown che rincorre la propria stessa bara nel finale.

Perché il dottor Frankenstein nelle mani del Teatro Nucleo non riesce a morire, è sì condannato a sopravviversi, ma non come lui sperava lassù lassù nel più alto dei cieli, bensì quaggiù quaggiù nel più basso, dove tutto cade, comprese le braghe. Attenzione però, che non si rida troppo, perché se è vero, e non è certo, che i nostri figli hanno giocato con il burattino di legno, i nostri nipoti giocano con il bambolotto meccanico che con un semplice giro di chiave nella schiena succhia cammina e canta!, per ora tra gli ultimi eredi dell’esimio dottore.