Memorie dal Reparto n°6

Memorie dal Reparto n°6
Liberamente tratto dal racconto di A. Cechov

Produzione Teatro Nucleo e Sfumature in Atto Aps
Regia Cora Herrendorf e Horacio Czertok
Con Daniele Giuliani
Disegno Luci Franco Campioni

Ph. Daniele Mantovani

A più di quarant’anni dalla Legge Basaglia e alla luce dei molti tentativi di revisionare questa legge che segna il superamento dell’istituzione manicomiale italiana. Una conquista di civiltà che rischiamo di perdere.
Con questa pièce, che sembra un’ideale prosecuzione della penultima regia della regista Cora Herrendorf sul tema – “Asylum, il manicomio delle attrici” – dedicata nel 2012 alla poesia e alla vicenda esistenziale di Alda Merini, si torna dunque tra le mura di un manicomio, alla ricerca delle verità di quei corpi e di quelle voci da sempre ridotti al silenzio. Per dirla con lo stesso Čechov, “era una situazione simile a quella di un esploratore che volesse ricavarsi un piccolo luogo nel vivo d’una foresta vergine: con quanto più accanimento lavorasse d’accetta, tanto più folta e possente la foresta gli ricrescerebbe intorno. Alla fine Ivan Dmitric, vedendo che ogni sforzo era vano, smise del tutto di ragionarci sopra e si abbandonò interamente alla disperazione e al terrore”.

La corsia n. 6, pubblicato nel 1892, è uno dei racconti migliori e più impressionanti di Anton Čechov. Attraverso quel luogo, che è il reparto psichiatrico di uno squallido ospedale della provincia russa, e attraverso l’incontro dei due protagonisti – Andrej Efimjc un medico colto e onesto ma incapace di reagire alle storture, bassezze e brutalità che si snodano davanti a lui e uno dei ricoverati, Ivan Dmitric un giovane intelligente e idealista ma caduto in un delirio persecutorio – Čechov muove una forte critica alla disumanità del trattamento manicomiale e alla corruzione e meschina ottusità serpeggianti nella società, facendo emergere l’inconsistenza e la spietatezza del giudizio sociale e notare quanto sottile sia la linea che separa la cosiddetta sanità mentale dalla pazzia.
Nell’attraversare questa macchina kafkiana il medico-filosofo scopre sulla propria pelle il dolore di tale condizione.
L’epilogo è tragico: egli realizza che in mancanza di veri e giusti interventi concreti, tale dolore non può essere superato che con la morte.
La corsia n°6 non ha alcunché di ideologico. L’atmosfera del racconto è tipicamente cecoviana. I protagonisti – lo psichiatra Andrèj Efimjc e il folle Ivan Dmitric Gromov – sono entrambi, con i loro elevati principi di umanità e di giustizia, piegati dalla vita e dalla storia. Pagano il prezzo di un modo di essere empatico e idealistico che urta contro una realtà sociale impregnata a tutti i livelli di meschinità, opportunismo, corruzione, spietatezza, cattiveria.


Dice Andrej Efimjc: “Io servo ad un’opera dannosa e ricevo uno stipendio dalla gente che inganno; io non sono onesto. Per me stesso « io sono un nulla, solo una particella dell’inevitabile male sociale: tutti gli impiegati del distratto sono dannosi e pigliano lo stipendio a sbafo… Della mia disonestà non sono quindi colpevole io, ma il tempo… Se fossi nato duecento anni più tardi, sarei stato un altro» “.

La denuncia del trattamento psichiatrico, che viola i diritti elementari degli esseri umani, si iscrive in una cornice storico-culturale, quella della Russia zarista, nella quale la violazione è la norma. L’ambito psichiatrico è solo quello ove lo scarto tra l’istanza umanitaristica della cura e la realtà di un’incarcerazione priva di senso appare più evidente: per chi ha occhi per vedere e cuore per immedesimarsi con gli altri.

Come scrisse Franco Basaglia: “Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale […]; viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento.

L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.

Da La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, 1964


RECENSIONI

Simona Frigerio su Persinsala

Sono trascorsi quarant’anni dall’approvazione di una tra le leggi più importanti del nostro ordinamento che, unitamente al diritto all’interruzione volontaria di gravidanza e al divorzio, all’abrogazione della legge sul delitto d’onore e al nuovo diritto di famiglia, in una manciata d’anni, cambiarono radicalmente il volto dell’Italia, elevando il nostro comune senso di umanità.

La legge che chiuse i cosiddetti manicomi (ma non gli ospedali psichiatrici giudiziari, per i quali si è dovuto aspettare il 2017 perché fosse finalmente attesa la normativa del 2015) e che prese il nome dal suo ideatore, lo psichiatra e neurologo Franco Basaglia, non è solamente un pilastro di civiltà per il nostro Paese dato che il trattamento della malattia mentale è tuttora argomento spinoso in molte parti d’Europa.

Come dimostra anche l’installazione di Christian Fogarolli,
Krajany, attualmente alla Tenuta dello Scompiglio di Vorno, che racconta la tragica fine di una quarantina di malati (o presunti tali), provenienti dal Trentino e deceduti – nel giro di un paio d’anni, o meno – durante la Prima guerra mondiale nell’ospedale psichiatrico di Bohnice (a Praga). Una situazione, quella delle strutture sovradimensionate e alienanti, che continua ad affliggere i Paesi dell’ex Europa orientale, in generale, e la Repubblica Ceca, in particolare.

Ecco, quindi, che a quarant’anni dall’approvazione della Legge Basaglia, alle Murate di Firenze va in scena un racconto di Anton Čechov che pare quasi profetico, sia nella sua denuncia di un sistema di internamento che, spesso, aveva fini altri (l’allontanamento di mogli melanconiche, figlie isteriche, figli scapestrati, membri della società con idee destabilizzanti per l’ordine sociale, etc.), sia in quella di un sentire comune – a livello politico ma anche di gerarchie sociali – che ammetteva solamente l’accettazione passiva dello status quo; un adeguarsi senza convinzione – ma prono – al comune senso del pudore, del dovere o dell’onore.

Memorie dal Reparto n. 6 è tratto da Палата № 6, ossia Corsia N° 6, una perla tra i racconti di Čechov – spesso e ingiustamente meno conosciuti delle sue opere teatrali – pubblicato nel 1892 e che ebbe un enorme successo appena uscito. Ripensato per la scena da Teatro Nucleo, regge bene il palco grazie alla capacità dell’autore russo di ricreare immagini vivide, personaggi complessi, situazioni credibili con poche parole dal tratto preciso. Daniele Giuliani, in scena, restituisce la complessità tragica del manicomio e dell’universo sociale che lo creava e lo ergeva a difesa dei suoi privilegi. In particolare, spiccano due momenti in cui l’interpretazione si fa autentica, quella in cui il vecchio paziente chiede spasmodicamente una cicca/sigaretta e che rimanda ad altri volti e gesti – visti nei film, nei documentari di mamma Rai, o nella nostra realtà, ad esempio milanese, quando aprirono le porte dell’allora ospedale psichiatrico Paolo Pini – e il finale, quando intona La cammesella.